Party Girl
regia e coreografia Francesco Marilungo
con Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis
assistente alla regia Francesco Napoli
light design Gianni Staropoli
video Gianmaria Borzillo, Francesco Marilungo
costumi Efisio Marras
management e promozione Domenico Garofalo
produzione Compagnia di Danza Körper
in coproduzione con
Danae Festival, Festival MilanOltre
con il supporto di
Gender Bender Festival, Did Studio/Nao Performing Festival
con il sostegno di
Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello - CapoTrave/
Kilowatt Sansepolcro)
progetto vincitore del Premio Prospettiva Danza Teatro 2020
progetto vincitore di Cross Award 2020
Un’indagine sul concetto di corpo femminile come oggetto del desiderio a partire da una riflessione di Georges Bataille che individua l’essenza stessa del desiderio nella figura della prostituta. Immagine quasi archetipica che rappresenta la morte sotto la maschera della vita e che pertanto ha il significato stesso dell'erotismo definito dallo stesso Bataille come il luogo in cui morte e vita si confondono.
La prostituzione fa di un corpo offerto un oggetto morto, o meglio il punto morto dello scatenamento delle passioni. Il corpo diviene puro oggetto del desiderio ed è proprio il suo stato di passività che permette a chi lo osserva di associargli una figura che lo corrisponda. L’oggetto del desiderio deve esistere per il desiderio dell'altro.
In Party Girl il processo di oggettivazione rende il corpo umano quasi inorganico. A partire da posture e movimenti capaci di innescare il desiderio nell’immaginario collettivo, le performer costruiscono una danza minimale costituita da un alfabeto stilizzato, rallentato, sospeso. La componente sensuale ed erotica viene completamente annullata da un corpo che mano a mano perde vita, si fa oggetto, manichino.
La percezione dell’oggettivazione è acuita da una voce fuori campo, che attraverso comandi impartiti alle danzatrici, modella in tempo reale la struttura della performance. Indelebili tracce del lavoro sono le interviste e le fotografie di Antoine D’Agata, le testimonianze dirette di associazioni che recuperano ragazze di strada, gli incontri con antropologi e sex-worker. In scena tre televisori: reperti abbandonati che trasmettono video di paesaggi, strade, night club, appartamenti privati, luoghi di frontiera in cui tutto ciò che non è ‘lecito’ può trovare spazio.
Tu mi chiami Iku, ma il mio nome è Izumi.
Quando tu mi filmi, la telecamera registra. Quando i clienti mi guardano la loro memoria registra. Nella penombra lentamente apro gli occhi scorgo il viso dei clienti. Sento il loro sguardo posarsi su di me. La luce diventa più forte io danzo sul palcoscenico e mi sento esposta. Mi spoglio lentamente e gli sguardi si intensificano ed io sprofondo. Chiudo gli occhi, accarezzo il mio corpo e quando lo guardo di nuovo, un bagliore nell'oscurità mi separa dalla realtà e il mondo diventa più bello. Non mi rendo conto del momento in cui la mia coscienza scivola via. In quella condizione una parte di me che abitualmente nascondo appare. Quando la sensazione è la stessa sul palco e nella sala, provo piacere e danzo come in un sogno. Alcuni fissano il mio corpo, altri il palcoscenico. Gli sguardi arrivano da
ovunque su ogni parte del mio corpo.
(Aka Ana, Antoine D’Agata)